Libro di giobbe

Leviatano, sfortuna, di.o, prosperità, satan

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    Riporto thread di forum biblico

    http://forumbiblico.forumfree.it/?t=65817310

    CITAZIONE (Lohengrin1 @ 3/5/2013, 20:16)
    Buonasera!Sto cercando di capire il significato del libro di Giobbe.Innanzi tutto vorrei sapere chi è lo scrittore e com si fa a sapere che lui. Il secondo aspetto riguarda il contenuto e chiedo se,secondo voi, è allegorico oppure letterale e come si giunge a una delle due conclusioni.Grazie.

    CITAZIONE (Isabella2 @ 3/5/2013, 22:42)
    CITAZIONE (Lohengrin1 @ 3/5/2013, 20:16) 
    Buonasera!Sto cercando di capire il significato del libro di Giobbe.Innanzi tutto vorrei sapere chi è lo scrittore e com si fa a sapere che lui. Il secondo aspetto riguarda il contenuto e chiedo se,secondo voi, è allegorico oppure letterale e come si giunge a una delle due conclusioni.Grazie.

    Dal testo di - Giobbe - Traduzione e commento di L.Alonso Schokel e J.L. Sicre Diaz Ti invio alcune pagine dell'introduzione:


    .
    1. I PRECURSORI DI GIOBBE

    Il libro di Giobbe è una vetta della letteratura universale. Come Edipo, Amleto, don Quijote o Faust, il suo protagonista è diventato un punto di riferimento, un prototipo di un atteggiamento di fronte alla vita. Quando si raggiungono queste altezze, non sembra necessario rintracciare le origini del personaggio e del tema. Tuttavia, noi comprendiamo a fondo un'opera letteraria solo quando la consideriamo in relazione alle opere a lei precedenti. Il genio assoluto non esiste. Occorrono molti eroi anonimi perché nasca Ulisse, molti cavalieri per don Quijote, molti amanti per don Giovanni, molta disillusione e disperazione per l'avventura di Faust.
    Giobbe non costituisce un' eccezione. a questa regola. Lo stesso nome sembra risalire ad un'antica tradizione (Ez 14,14), e la ternatica del libro, con la sua traboccante ricchezza, era stata trattata, almeno in parte, da altri autori dell'antico Oriente. Ciò non toglie merito alla nostra opera. Possiamo affermare senza ambagi che i 'testi considerati come precursori di Giobbe difficilmente sarebbero giunti ad essere conosciuti se non esistesse questo libro. Ma sarebbe ingiusto ignorare le riflessioni che l'hanno preceduto".
    Trattando questo tema, corriamo il rischio di confondere l'oggetto dello studio. Non si tratta di esporre i contatti del libro di Giobbe con altre culture a livello linguistico, formale, mitologico, etc. Da questo punto di vista si potrebbe parlare molto di Giobbe ed Ugarit-, o formulare ipotesi circa l'origine edomita' o araba" dell'opera. Non ci interessano neppure i paralleli con culture quali quella greca", quella indiana- o quella moderna", Noi ci soffermeremo solo sui testi che trattano espressamente' il tema dell'uomo davanti al dolore o il tema del «giusto sofferente». Sono questi, con le loro diverse sfumature, i testi che costituiscono lo sfondo culturale di Giobbe. Cominceremo da un testo egiziano, per. poi concentrarci in Mesopotamia, il luogo di maggiore interesse.

    Dialogo di un disperato con la sua anima"

    Anche se la copia attuale, conservata nel Museo di Berlino, proviene dal Medio Impero, l'originale risale al Primo Periodo Intermedio (circa 2190-2040 a.C.). L'opera utilizza la forma letteraria del dialogo tra un uomo stanco di vivere e la sua anima. L'interpretazione è in alcuni momenti difficile, e i commentatori differiscono radicalmente anche riguardo alla soluzione. Qualcosa sembra chiaro: il protagonista, disilluso, pensa di suicidarsi, mentre la sua anima vi si oppone, temendo di non poter godere di riti funebri degni. In questo dibattito, è interessante la descrizione della società, che con la sua assoluta corruzione provoca nell'uomo un sentimento di solitudine:

    «A chi parlerò oggi?
    I conoscenti sono malvagi,
    gli amici di oggi non amano. A chi parlerò oggi?
    I cuori sono rapaci,

    tutti rubano i beni del loro prossimo. A chi parlerò oggi?
    L'uomo . onesto è scomparso, il violento ha accesso a tutto. A chi parlerò oggi?

    Gli uomini si compiacciono del male, la bontà è rigettata da ogni parte.
    A chi parlerò oggi?
    Non c'è più gente onesta,
    il paese è 'abbandonato a coloro che operano il male» (nn. 103ss)

    Davanti a questa situazione, la morte appare come la cosa più meravigliosa, un'idea che ci ricorda la lamentazione iniziale di Giob 3

    «La morte mi sembra oggi
    come il luogo di riposo per un ammalato,

    come un uscire all'aria aperta dopo esser stato rinchiuso. La morte è oggi per me
    come il profumo della mirra,

    come sedersi sotto una tenda in un giorno di brezza. La morte è oggi per me
    come il profumo dei fiori di loto,

    come sedersi sulla spiaggia del Paese dell'Ubriachezza. La morte è oggi per me
    come un sentiero pianeggiante,
    come il ritorno a casa dopo un viaggio ... » (nn. 130ss).

    Poiché, in conseguenza della morte, l'uomo passa ad essere come un dio, sulla barca del sole, pieno di sapienza. La risposta finale dell'anima è interpretata in modi molto diversi. Mentre alcuni credono che accetti la proposta di suicidio, e si compromette ad accogliere la sorte dell'uomo, qualunque essa sia, altri pensano che l'anima esorti per l'ultima volta, e con successo, a conservare la vita"



    Senza dubbio, questo dialogo non costituisce un precedente letterario del libro di Giobbe. Sono molte le differenze formali, di impostazione e di contenuto. Ma alcuni aspetti sono di estremo interesse. In primo luogo, l'uso del dialogo, che in Mesopotamia farà sorgere la figura dell'amico che consola, discute o intercede. Il procedimento raggiungerà in Giobbe un grande sviluppo. In secondo luogo, la noia della vita 'non è provocata da un fatto concreto, come la malattia o il fallimento sociale ed economico del protagonista, ma da un complesso insieme di fattori; precisamente perché non è un settore della vita, benslla vita stessa che è in crisi, l'unica via d'uscita sembra il suicidio. Anche Giobbe si porrà il problema con identica radicalità, ma non penserà mai a questa via di soluzione. Da ultimo, questo testo non sembra porre il problema della teodicea; non lotta per far stare insieme la sofferenza con la realtà di un dio (o di dèi) creatori e provvidenti. È una ulteriore differenza tra Egitto e Mesopotamia, almeno allo stato attuale delle nostre conoscenze. Tuttavia qualcosa si è messo in moto; e quando l'uomo si pone di fronte al nonsenso della sua vita e del suo mondo tutte le piste restano aperte in ricerca di risposta.

    Altri testi egiziani offrono punti di contatto troppo remoti e non vale la pena di indugiarvisi-".





    Molto più interesse rivestono i testi di origine mesopotamica, scoperti in quella zona o ad Ugarit. Anche se Muller li tratta nell'ordine con cui furono pubblicati (Ludlul bel nèmeqi, Teodicea babilonese, Louvre AO 4462, PSB J2 135, Giobbe sumerico, RS 25460), preferisco presentarli nell'ordine con cui furono composti.. riconoscendo già fin d'ora che la datazione non sempre è sicura. D'altra parte, non bisogna vedere in questo metodo un tentativo di ricostruire una possibile linea evolutiva del tema.

    2. «Giobbe sumerico» o «l.amentazione di un uomo al suo dio»

    Il poema fu ricostruito da Kramer a partire da cinque frammenti sciolti, cui Gordon aggiunse più tardi un altro piccolo frammento. Sebbene il testo attuale provenga approssimativamente dal 1700 a.c., l'originale sembra risalire alla terza dinastia di Ur, 'verso il ' 2000. Kramer lo aveva strutturato inizialmente in quattro sezionit-j in seguito si è inclinato a dividerlo in cinque! 3 .

    La prima è costituita dall'introduzione (II. 1-9), in cui si esorta a: lodare il dio, con una certa emergenza del do ut des: «il suo (dell'uomo) lamento plachi il cuore del suo dio, perché un uomo senza dio non avrà- alimento» (II. 8-9).

    Nella seconda, il poema ci presenta un individuo innocenté (e non usa la sua forza per fare il male») che si vede assalito dalla malattia e dalla sofferenza, e si rivolge al suo dio (II. 10-20, abbastanza mal conservate; le linee 20-25 sono andate perse).

    La sezione principale (II. 26-116) presenta il lamento del protagonista, che sembra essere stato accusato falsamente; ciò ha provocato il malessere del re, il tradimento di compagni ed amici, la cospirazione di uomini menzogneri, senza che il suo dio lo protegga nella sventura. E, d'accordo con il principio enunciato nell'introduzione, il protagonista ricorre allora all'unica soluzione possibile: presentare' il suo lamento davanti al suo dio, rafforzandolo con la lamentazione della sua famiglia (madre, sorella, sposa) e di cantori professionisti. È un tentativo disperato di commuovere la divinità protettrice, cui viene ricordato:

    «Dio mio, tu sei il padre, che mi ha generato, alza il mio viso ...

    Fino a quando mi disprezzerai

    e mi lascerai senza protezione?» (II. 96-98).

    Come possibile causa del suo stato, si potrebbe addurre la colpa, che accompagna ogni uomo fin dalla sua nascita:

    1 sapienti dicono una parola giusta e vera:

    'Mai nacque ad una madre un figlio senza peccato,
    , un faticatore senza colpa non è mai esistito'» (II. 101-103).

    Il Testo, abbastanza sconnesso a questo punto, sembra continuare questo stesso tema, terminando:

    Dio mio, ora che mi hai mostrato il mio peccato,

    io, l'uomo, confesserò i miei peccati davanti a te ... » (II. 111- 112).

    La quarta sezione (II. 118-129) suppone la «fine felice». Il dio ascolta «il pianto amaro», «il lamento e il gemito», e allontana la trisyezza e la malattia. «Cambiò la sofferenza dell'uomo in gioia».
    Il finale dell' opera, molto mutilo, è composto dalla lode al dio II 130-140).

    Come dettagli interessanti possiamo indicare, anzitutto, l'impostazione. «La tesi fondamentale del nostro poeta è che, in caso di sofferenza e di avversità, sebbene appaiano ingiustificate, la vittima ha solo un ricorso valido ed efficace: glorificare il suo dio, gemere e lamentarsi davanti a lui, finché presti attenzione alle suppliche»!". Probabilmente, questa idea non è una creazione dell'autore del poema esisteva già prima. Ad ogni modo, era tra le più diffuse, tanto in Mesopotamia come in Israele, dando via libera a numerosi salmi di lamentazione"
    Insieme ad essa, assume grande importanza la relazione tra peccato e sofferenza. Anche se il protagonista appare inizialmente buono, dìo non lo libera dalla peccabilità congenita ad ogni uomo (II. 101-103), o da possibili colpe personali (II. 111-112). Perciò non si pone nemmeno qui il problema della teodicea, sebbene il sofferente domandi con amarezza perché il suo dio lo abbandoni (1. 98). Non esiste problema, perché il peccato umano spiega tutto.

    In definitiva, il «Giobbe sumerico» ci aiuta a comprendere gli amici di Giobbe più che lo stesso Giobbe. Rappresenta la posizione tradizionale, avallata dall'esperienza di secoli (dicono i sapienti una parola giusta e vera»: 1. 101). Finché un giorno il blocco monolitico mostra le sue fessure e si screpola.

    CITAZIONE (Lohengrin1 @ 4/5/2013, 08:09)
    Grazie signora Isabella.Mi vuole dire che Giobbe è un personaggio paradigmatico e non reale?

    CITAZIONE (Isabella2 @ 4/5/2013, 13:32)
    CITAZIONE (Lohengrin1 @ 4/5/2013, 08:09) 
    Grazie signora Isabella.Mi vuole dire che Giobbe è un personaggio paradigmatico e non reale?

    Assolutamente; io ho solo postato alcune pagine dell'introduzione di un testo autorevole che mi sembravano interessanti.

    CITAZIONE (Isabella2 @ 4/5/2013, 19:48)
    CITAZIONE (Lohengrin1 @ 4/5/2013, 16:19) 
    Molto utile il documento che hai postato.Tuttavia volevo sapere,secondo gli ebrei, se si può stabilire chi fu lo scrittore del libro.Mi preme saperlo perchè alcuni amici insistono,con molta sicumera,che fu Mosè a scrivere il libro.Secondo me non si può sapere,ma vorrei dei ragguagli più eruditi.Grazie.

    Caro Lohengrin1,

    grazie, in attesa della risposta degli amici ebrei penso ti possa interessare il pensiero di L.Alonso Schokel e J.L Sicre Diaz in merito all'autore del Libro di Giobbe



    " Purtroppo (o per fortuna) non sappiamo niente di questo grande uomo. Alcuni secoli più tardi non mancarono degli ottimisti capaci di identificarlo con Mosè, Salomone«, Isaia', Ezechla', o di attribuirlo allo stesso Giobbe'" o ad Elihu". In tempi moderni i commentatori sono propensi a considerarlo anonimo, limitandosi a reputarlo «giudeo»!", «israelita del nord»:", «edornita»!", «arabo»?". L'opinione tradizionale di un giudeo che scrive in Palestina sembra la più opportuna, di fronte alle altre che situano la redazione del libro in Babilonia (Naish) o in Egitto (Hitzig).

    L'autore è un intellettuale Fa parte di questo gruppo molto eterogeneo di Israele e dell'antico Oriente che affronta i problemi più disparati, si interessa di tutto e indaga sulle relazioni dell'uomo e di Dio. Certamente pochi hanno raggiunto le quote del nostro autore. Ma questo non deve spingerei ad isolarlo dalla corrente. Dentro essa, egli appartiene al «settore critico La tradizione gli crea più problemi di quanti gliene risolve. E niente ha valore assoluto per il semplice fatto di essere antico. Egli osa dirlo. Quando condanna le risposte solite come «proverbi d'argilla» e «massime di polvere»; quando chiama i rappresentanti della teologia ufficiale «medici da strapazzo,ciarlatani», che solo potrebbero mostrare intelligenza se tacessero.
    Ci vuole del coraggio per condannare il passato in questo modo. più ancora per parlare di Dio come lui ardisce farlo. La società benpensante ed anche i profeti (che avevano poco di benpensanti rigettavano con durezza chi parlava male di Dio, attribuendogli ingiustizia, arbitrarietà o disinteresse per questo mondo. Il problema poteva porsi, ma con l'umiltà angoseiata di Abaquq e Geremia, o come sottofondo per un messaggio di speranza (Secondo-Isaia, Zaccaria). Mai con questo orgoglio e coraggio di Giobbe, più blasfemo dei più grandi «atei». Molti uomini lungo la storia avranno pensato come il protagonista della nostra opera. Pochi si sarebbero permessi di formulare le loro idee. E quasi nessuno di scriverle. L'autore di Giobbe è uno di questi, dimostrando un ardimento senza eguali.

    E ci vuole pure audacia -e umiltà- per lasciare un'opera così aperta, con più interrogativi che risposte, indifesa di fronte ad elogi e critiche. Ognuno può leggerla come vuole, scoprirvi la sua propria angoscia, ripercorrere il cammino di Giobbe e chiudersi alla sua reazione finale, considerandola insoddisfacente. Giobbe, come la Pietà «Rondanini» di Michelangelo, è la maturità dell'incompiuto, la supremazia dell'abbozzo sull'immagine perfetta, del ruvido sulla superficie lisciata. Ma pochi ardiscono consegnare alla posterità un'opera come questa; è più facile distruggerla a martellate o gettare nel fuoco il manoscritto.

    Di fronte a quest'aspetto della sua personalità, gli altri tratti impallidiscono. È senza dubbio un grande letterato, scrittore eccellente, magnifico poeta. La sua cultura sbalordisce e le sue conoscenza così svariate hanno permesso di attribuirgli differenti origini; è più facile spiegare questo fatto supponendo frequenti viaggi, una lettura abituale e un'ansia di sapere.
    Esiste, però, un particolare importante. Il suo amore alla natura.

    È vero che la natura e la storia sono dei temi, abituali della riflessione religiosa d'Israele. Ma qui scopriamo nuovi aspetti. Come se l'unica soluzione al grande enigma della vita venisse dall' aprire gli occhi al mondo che ci circonda. In montagne che si sgretolano e alberi che muoiono, in fiumi che scorrono o si seccano, nella luna risplendente Q avvolta da nubi, nella pioggia, brina, in camozze, cavalli, nel deserto o nel Nilo, nel coccodrillo o nell'aquila, l'uomo ha una risposta ai suoi problemi. L'autore di Giobbe ha anticipato di molti secoli la «rivoluzione copernicana». Per lui, l'uomo non è più il «centro di tutte le cose». Perché chiuso in se stesso, stordito dalla sua stessa riflessione e dalla sua tormentata ricerca della veritàza (c.28). Deve uscire dalla caverna interiore all'aria libera. Allora potrà contemplare la manifestazione di Dio che viene nella tempesta, non per parlare di misteri astratti e insondabili, ma per far parlare le sue creature.

    E questo mondo visibile porterà l'uomo ad una nuova conoscenza di Dio. Questa è la tipicità dell'autore di Giobbe: la sua esperienza di Dio. L'evoluzione del protagonista riflette probabilmente la sua evoluzione personale. Dal Dio conosciuto, amato e accettato fino al mistero impenetrabile che provoca ribellione, e poi sottomissione. Alla fine, il sunto del suo cammino: «Ti conoscevo solo per sentito dire, ora i miei occhi t'hanno veduto». Poche parole, una lunga esperienza. Anni di lotta interiore, di dubbio e di silenzio, pensando, bestemmiando e pregando, finché Dio gli si fa conoscere in forma nuova. Esperienze di questo tipo sono inesprimibili, e le parole di un terzo le coprono di banalità. È meglio leggere il libro e intraprendere un cammino simile.

    Ps. Spero di non aver fatto troppi errori nella trascrizione..
    Isa

    ******

    Riporto qui discussione sul libro di giobbe partita su forum biblico, ci sono altre discussioni su giobbe ma incentrate prevalentemente sulla figura di satan/shatan/satana.

    da utente Vikhyngk podéyah due link da google libri con due testi entrambi con paragrafi dedicati al libro di Giobbe

    http://books.google.it/books?id=s4C24KnPAq...epage&q&f=false


    http://books.google.it/books?id=A3cgAwAAQB...0giobbe&f=false

    Inviato tramite ForumFree Mobile



    Per il leviatano/coccodrillo si veda

    https://consulenzaebraica.forumfree.it/?t=69154292

    Per i figli di d.Io/ bene' elohim/ giudici si veda
    http://forumbiblico.forumfree.it/?t=39712512

    Sul satan di giobbe si veda ad esempio fra i molti link

    https://consulenzaebraica.forumfree.it/?t=58034671

    e in particolare l esaustivo link

    https://consulenzaebraica.forumfree.it/?t...&st=45#lastpost

    Qui in particolare si ragiona sull esistenza di giobbe come uno dei tre servi del faraone, si confronta giobbe con il poema sumero del servo sofferente e si fa un confronto sulla figura del satan in tutto il tanach in particolare in Zaccaria 3.1.

    *
    Sistemati i quote, era illeggibile.

    Mod


    ***
    Ti ringrazio ho ancora delle difficoltà con le citazioni, in ogni caso ci sono veramente molti spunti di discussione, e un testo poetico? Filosofico? "Religioso"? E un allegoria? Un artificio letterario?Assomiglia forse ad un testo sumero? Tutte queste cose insieme? Giobbe era ebreo oppure no? Era un sapiente un erudito oppure no? E gli amici di giobbe chi erano? Eccetera ..

    Edited by leviticus - 15/5/2017, 20:39
     
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    CITAZIONE (Gavriel Levi: Giobbe, chi non era costui? @ 1/1/2013, 20:16)
    ...


    Secondo i maestri del midràsh: " Moshè ha scritto la toràh, la vicenda di Bil'àm (il profeta che voleva maledire gli ebrei) ed il libro di Giobbe " (TB.BB 15a). Contro la maggioranza dei maestri che ritengono Giobbe un personaggio storico reale, R. Shemuèl bar Nachmàni afferma che " Giobbe non è mai esistito e tutta la sua storia è un'allegoria " (TB. BB 15a).

    Rabbi Iehudàh haNassì ritiene che: " Se il libro di Giobbe è stato scritto soltanto per spiegare i fatti della generazione del Diluvio, sarebbe sufficiente " ( Ber. R 26:18)

    Con quale gioco di specchi il Talmud guarda il testo biblico? Le tre ipotesi midrashiche riferite sollevano, se considerate insieme, interrogativi speculari:

    a) Moshè non aveva abbastanza da fare con la scrittura (sotto dettatura) della toràh? Per quale motivo si sarebbe messo a scrivere, mantenendosi anonimo, una tragedia su fatti che forse erano accaduti ma che lui non aveva visto o che forse non erano neppure avvenuti? Per quale motivo avrebbe scelto di scrivere proprio la storia di Giobbe? Aveva avuto una profezia o sosteneva, con una sua seconda identità, una protesta contro D-o? Perché la storia di Bil'àm, che è scritta dentro la toràh, viene presentata come una storia a sé, in qualche modo fuori della toràh? Quale rapporto esiste tra la storia di Bil'àm e quella di Giobbe? Di nuovo: perché Moshè viene presentato come uno scrittore free-lance ?

    b) Il Talmud, per rafforzare l'ipotesi di R.Shemuèl bar Nachmàni che Giobbe è un personaggio immaginario, fornisce un esempio parallelo. Quando Davìd ha mandato a morire Uriàh e ha sposato Batshèva', il profeta Natàn per potergli contestare la colpa, ha raccontato a David la storia di un pastore ricco che aveva rubato l'unica pecora di un pastore povero. Con rabbia, David ha condannato il pastore ricco ed il profeta Natan ha svelato a David che, fuori metafora, stava parlando di lui (Shem. 2°,12:1-8). Il Talmud sostiene che rispetto alla vicenda di David, non ha importanza se la storia dei due pastori è immaginaria o meno. Quale significato ha questa ipotesi talmudica su un parallelismo tra Moshè con il libro di Giobbe da una parte e Natàn con la storia dei due pastori dall'altra? In particolare, dove sta l'equivalente di David nella storia di Giobbe?

    c) Rabbi Iehudàh haNassì è il compilatore della Mishnàh, il nucleo del Talmud. In un certo senso Rabbi Iehudàh sta alla Toràh orale come Moshè sta alla Toràh scritta. Percéè proprio Rabbi Iehudàh sostiene che la storia di Giobbe è una interpretazione esistenziale del Diluvio, il prototipo della catastrofe universale? Perché, anche secondo Rabbì Iehudàh, proprio Moshè, il redattore della toràh scritta, avrebbe sentito il bisogno esistenziale di dare la sua interpretazione sui fatti del Diluvio? La correlazione fra Giobbe ed il Diluvio vuol dire che D-o, con il Diluvio, ha consegnato il mondo nelle mani del Satàn? Oppure, più semplicemente, Rabbì Iehudàh mette sulla bocca di Giobbe la propria richiesta categorica di ottenere una spiegazione morale sull'esistenza del male? Ed in quale modo Rabbi Iehudàh collega Moshè con il Diluvio oltre che con Giobbe?

    Forse non è possibile fornire una risposta punto per punto a questi interrogativi, ma certamente è necessario considerare la violenza morale di questo processo interpretativo.

    I Maestri inquadrano il contesto politico in cui Moshè viene al mondo. " Tre personaggi hanno partecipato alla decisione del Faraone di far buttare i bambini ebrei nel Nilo: Bil'am, Giobbe e Itrò "(TB Sotàh 11a). Bil'am, che diede l'idea, morì dopo 120 anni combattendo contro gli ebrei; Giobbe, che tacque, dopo 120 anni trovò le sue disgrazie; Itrò, che fuggì perché non voleva farsi complice, dopo 40 anni diventò suocero di Moshè e dopo 80 anni raggiunse il popolo d'Israele sotto il Sinai, suggerendo a Moshè come praticare un sistema giudiziario giusto.

    Il concetto è chiaro: Bil'am, Giobbe e Itrò sono tre figure della responsabilità-solidarietà umana: quando la persecuzione è già decisa si può collaborare con i persecutori, oppure tacere, oppure rifiutarsi e fuggire.

    Giobbe è il mezzo giusto che tace. Qualunque sia stato il suo cuore, Giobbe ha lasciato capire al Faraone di essere dalla sua parte ed è quindi incluso nella decisione della persecuzione.

    Ma il discorso non è finito; Moshè è il bambino che la figlia del Faraone tira fuori dalle acque, spezzando la persecuzione. Nella storia di Moshè la toràh sviluppa un rovesciamento rispetto alla storia del Diluvio: a) la persecuzione è decisa da un tribunale umano; b) la persecuzione viene fermata da un gesto di solidarietà semplice e non eroica; c) Moshè dovrebbe morire imprigionato nella sua piccola culla-arca, se fuori della culla-arca qualcuno non fermasse il Diluvio.

    Moshè diventerà un liberatore soltanto perché qualcuno lo ha salvato. La storia di Moshè ribalta la storia di Noach. D-o non salva Moshè e Moshè non si salva da solo. La sopravvivenza di Moshè dimostra che persino un singolo individuo si può costituire come Altro contro la decisione di un popolo di annichilire un altro popolo.

    E se Nòach avesse costruito, anche contro D-o, un'Arca per tutta l'umanità? E se Nòach non avesse costruito nessuna Arca e fosse fuggito? Perché Nòach ha taciuto prima e durante il Diluvio?

    Torniamo al primo Midrash da cui siamo partiti: Moshè ha scritto la parashà di Bil'am ed il libro di Giobbe per raccontare la sua storia e per interpretare, con la sua esperienza, la storia del Diluvio:

    1) Bil'am è il persecutore segreto che consiglia il Faraone come portare il popolo ebraico al suicidio di massa e che, una generazione dopo, cercherà di maledire gli ebrei , fingendo di rispettare il volere di D-o.

    2) Itrò è l'uomo che contrasta la persecuzione senza fare nessun gesto eroico; in un certo senso Itrò obbliga D-o a darsi da fare per salvare gli ebrei. Itrò tornerà ad avere un rapporto collettivo con gli ebrei soltanto dopo che D-o li ha salvati tutti, rompendo le acque del Mar Rosso.

    3) Giobbe è l'uomo del silenzio che deve imparare ad urlare, quando riesce a comprendere in prima persona l'assurdità del dolore umano. Per il Midràsh il grido di Giobbe dopo lo svelamento della sua personale preistoria non è più un grido individuale; Giobbe ha scoperto che il suo dolore è il dolore di ogni essere umano e che il suo silenzio alla corte di Faraone è, in sostanza, la vera causa del dolore umano.

    4) Moshe deve scrivere il libro di Giobbe. Il bambino che è stato salvato per un piccolo gesto di solidarietà umana è il prototipo vivente di come gli uomini possano salvare gli uomini. L'uomo che è stato perseguitato dentro la culla-arca, e che è stato tirato fuori dalle acque, deve dire in qualche modo a D-o che l'Arca di Nòach è stata un campo di sterminio dentro e fuori il Diluvio.

    Nel Talmud è detto che Rabbì Iehudàh haNassì è stato piagato nel corpo perché non aveva capito ed aveva banalizzato la sofferenza di una mucca portata al macello. Rabbì Iehudàh ha capito, sulla sua pelle, che il libro di Giobbe collega il dolore dell'umanità con il dolore dei singoli individui, attraverso la presa di coscienza e l'assunzione di una doppia responsabilità.

    E' una coincidenza che non può essere casuale. Rabbì Iehudàh mette per iscritto la Mishnàh, contro il principio di mantenere la toràh orale nella sua forma orale, dopo il secondo massacro compiuto dai romani contro gli ebrei. La motivazione con cui Rabbì Iehudàh mette per iscritto la Mishnàh è la stessa che lui attribuisce all'autore del libro di Giobbe: protestare contro il Diluvio, annullandolo. Mentre scrive la toràh orale, Rabbì Iehudàh HaNassì continua a far parlare la toràh scritta.

    Fonte

    CITAZIONE (J. Attali: Giobbe @ 1/1/2013, 20:16)
    Certamente la più affascinante di tutte le figure bibliche, che osa porre la più difficile domanda che una religione possa affrontare: «Dio può volere il male degli uomini?». In altre parole, la stessa domanda che ossessiona me come tanti ebrei da sessant’anni: «Perché Dio avrebbe aperto il Mar Rosso davanti agli ebrei in fuga e non ha impedito la Shoah?».

    Certamente il più audace capitolo della Bibbia: un libro intero consacrato alla questione dell’ingiustizia del destino degli uomini, sulla quale si sono infrante tutte le religioni, le credenze e le filosofie!

    Certamente il più imbarazzante: l’ebraismo, essendo un monoteismo, non avrebbe potuto avere una divinità autonoma, responsabile del Male; esso fa necessariamente parte della Creazione: «Il Signore ha fatto ogni cosa per il suo fine e anche il malvagio per il giorno della sventura» (Pr 16,4).

    Certamente il libro più enigmatico: non vi si fa quasi menzione di Dio, né della Torah, né di alcunché di ebraico...

    Certamente uno dei più grandi capolavori letterari, ispirato tra gli altri a un racconto sumero, le cui magnifiche descrizioni di animali egiziani potrebbero far pensare che sia stato scritto al tempo di Mosè, o quantomeno all’epoca di Salomone.

    Secondo il prologo, tutto parte da uno dei “figli di Dio” (cioè da una delle creature di Dio), un procuratore, un “satana” (senza la maiuscola poiché, per l’ebraismo, che attinge la nozione dalla tradizione babilonese, è un accusatore, non un rivale di Dio). Questo procuratore viene, dice il testo, «dalla terra, che ha percorso in lungo e in largo» (Gb 1,7). Spiega che non ha incontrato alcun vero credente, che nessun uomo crede in Dio in modo veramente disinteressato.
    Per provargli che ha torto, Dio decide allora di mettere alla prova l’uomo più credente, più integro, più felice, più ricco di quell’epoca: Giobbe (in ebraico Iyor, dalla radice Aleph Yod Resh, ‘odiare’), di cui il testo non precisa esplicitamente se sia ebreo.

    Innumerevoli commentatori hanno discusso dell’autenticità di Giobbe e della sua ebraicià. Per alcuni, è contemporaneo di Abramo; per altri, di Giacobbe; per altri ancora, dei Giudici. Per lo Zohar, non è ebreo. Per Maimonide, non è esistito: non è che una metafora.
    Si suppone che Giobbe vivesse presso Edom ed è considerato da Ezechiele come un saggio, alla stregua di Noè, che non è neanche lui ebreo.

    Per dimostrare che la propria fede è disinteressata, Dio comincia mandandolo in rovina. Ciò non intacca in nulla la sua fede: «Nudo uscii dal grembo di mia madre, e nudo vi ritornerò. Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!» (Gb 1,21). Per metterlo alla prova ancora di più, Dio gli riprende i suoi sette figli e anche le sue tre figlie muoiono. La fede di Giobbe resta invulnerabile. Eccolo in seguito coperto di «una piaga maligna, dalla pianta dei piedi alla cima del capo» (Gb 2,7). Sua moglie gli spiega allora che i suoi drammi e sciagure sono sicuramente colpa del suo Dio, e che gli sarebbe stato sufficiente rinnegarlo per porre un termine a tutte le loro sofferenze. Maledicendo il giorno della sua nascita (Gb 3,1) (perché gli astri sono senza dubbio, pensa, responsabili delle sue disgrazie), egli rifiuta di prendersela con Dio: «Il Signore ha dato, il Signore ha tolto, sia benedetto il nome del Signore!». Parlando come farà molto tempo dopo Geremia negli ultimi due versetti delle sue Lamentazioni, Giobbe aggiunge: «Che contano il dolore, la durezza della sciagura che ci mette alla prova. Dio non ci ha abbandonati». Poi spiega che sa che può accadere che Dio massacri gli innocenti con i colpevoli (Gb 9,22 e sgg.).
    Tre amici vengono allora a rendergli visita: sono così stupefatti dello stato nel quale lo trovano che prima passano con lui sette giorni in silenzio (ancora il silenzio...), poi, ciascuno a suo modo, tentano di trovare la causa della sua sfortuna. Anche se ogni visitatore incarna una scuola di pensiero differente, tutti gli dicono che deve avere qualche cosa da rimproverarsi e che gli sarebbe sufficiente confessarlo a se stesso (e dunque a Dio) per essere guarito (la psicanalisi non dirà nient’altro, nel XX secolo). Giobbe nega risolutamente: no, non c’è niente da confessare! Si indigna anche che i suoi amici lo credano capace di un qualche crimine: «Fino a quando mi tormenterete e mi opprimerete con le vostre parole?» (Gb 19,1). Poi arriva un quarto amico, più giovane, Elihu, che non pensa che Giobbe abbia qualcosa da rimproverarsi e che gli raccomanda di essere paziente, perché Dio finisce sempre per ricompensare la virtù (Gb 8,6-8).
    Curiosamente, nessuno gli parla di ricompensa o di punizione nell’aldilà; ciascuno non parla che di un ritorno di fortuna e di salute. Giobbe stesso non sembra credere nella vita eterna. Ugualmente, in nessun momento si fa parola della Torah né del Decalogo.
    Giobbe spiega che lui pensa di poter essere guarito soltanto se è ammesso a difendere in prima persona la propria causa davanti a Dio e fargli ciò che chiama un «giuramento di innocenza» (Gb 27; 31). Implora dunque Dio di manifestarsi e di accettare di ascoltarlo: «Ma io all’Onnipotente voglio parlare, con Dio desidero contendere» (Gb 13,3; 31,35). Ancora una volta il silenzio...
    Dio si manifesta due volte, uscendo da una «nuvola» e poi da una «tempesta» (Gb 38,1; 40,6). Non è il Dio che Giobbe spera: è un Dio furioso, d’un furore tutto umano, che rimprovera a Giobbe di osar formulare un parere sulle Sue motivazioni; un Dio che non sa che farsene dei giuramenti di innocenza di Giobbe!
    Questo è uno dei più bei pezzi della letteratura universale. Sentite questa voce, ascoltate Dio che parla della Sua opera e dell’immensità del Suo compito: «Chi è mai costui che oscura il mio piano con discorsi da ignorante? [...] Quando ponevo le fondamenta della terra, tu dov’eri?» (Gb 38,2-4); «Da quando vivi, hai mai comandato al mattino e assegnato il posto all’aurora, perché afferri la terra per i lembi e ne scuota via i malvagi?» (Gb 38,12-13). Dio racconta a Giobbe come Egli abbia creato l’asino, il cavallo, l’ippopotamo, il coccodrillo. Hai immaginato, dice a Giobbe, che cosa vuol dire dover prendere la vita degli uni perché vivano gli altri? E poi una frase terribile, shakespeariana: «Chi mi ha anticipato qualcosa, perché io glielo debba rendere? Sotto tutti i cieli, ogni cosa è mia» (Gb 41,3)17.
    Di gran lunga più impressionato dal fatto che Dio gli parli che da ciò che gli ha detto, Giobbe ammette che non deve chiedergli alcuna spiegazione: «Ecco, non conto niente: che cosa ti posso rispondere? Mi metto la mano sulla bocca. Ho parlato una volta, ma non replicherò, due volte ho parlato, ma non continuerò» (Gb 40,2-5). «Comprendo che tu puoi tutto e che nessun progetto per te è impossibile. Chi è colui che, da ignorante, può oscurare il tuo piano? Davvero ho esposto cose che non capisco, cose troppo meravigliose per me, che non comprendo» (Gb 42,2-3). «Perciò mi ricredo e mi pento sopra polvere e cenere» (Gb 42,6).
    Tutto è finito: benché abbia spiegato che non deve rendere conto a nessuno e che i Suoi giudizi sono inesplicabili, Dio condanna gli amici di Giobbe a sborsare ricchissime offerte per essersi permessi di pretendere di interpretare il Suo pensiero. Poi Egli rende a Giobbe la sua ricchezza, i suoi sette figli e le sue tre figlie (gli stessi, dirà più tardi un commentatore, che sono morti, perché in effetti sono stati soltanto esiliati). Giobbe, dice il testo, li vede prosperare fino alla quarta generazione.
    Dal Libro di Giobbe io traggo due osservazioni essenziali.
    Da una parte, l’uomo è libero. Non c’è alcuna predestinazione o Grazia. Anche se Dio pretende di potere tutto, non decide nulla. L’uomo è, per se stesso, la propria Provvidenza. Come dice rabbi Akiba: «Tutto è nelle mani di Dio, salvo il timor di Dio». Maimonide aggiungerà nel XII secolo: «Ogni uomo può diventare giusto o colpevole, buono o cattivo; è per la sua propria volontà che sceglie la strada che desidera. Ogni uomo può diventare giusto come Mosè o peccatore come Geroboamo». E conclude: «Se noi soffriamo, è a causa dei mali che ci affliggiamo noi stessi di nostra piena volontà, ma che noi attribuiamo a Dio». Giobbe non è d’altra parte mai così libero come nella disgrazia.
    È nella posizione del patriota davanti al plotone d’esecuzione: può decidere ciò che vuole. Povero e nudo, è tuttavia più libero di quanto non sia in seguito, quando ha di nuovo fortune e figli, responsabilità e doveri.
    D’altra parte, il Libro di Giobbe costituisce un’importantissima opera letteraria, come illustra in particolare questo passo, che io non resisto al piacere di citare largamente, che amo rileggere a voce alta, in cui Dio si vanta d’aver creato il coccodrillo e lo paragona all’uomo, di cui ha fatto il proprio “servitore”. L’uomo che non osa affrontare il coccodrillo come Lui, Dio, affronta l’uomo: «Chi mai può afferrarlo per gli occhi, o forargli le narici con un uncino? Puoi tu pescare il Leviatàn [il coccodrillo, N.d.A.] con l’amo e tenere ferma la sua lingua con una corda, ficcargli un giunco nelle narici e forargli la mascella con un gancio? Ti rivolgerà forse molte suppliche o ti dirà dolci parole? Stipulerà forse con te un’alleanza, perché tu lo assuma come servo per sempre? Scherzerai con lui come un passero, legandolo per le tue bambine? Faranno affari con lui gli addetti alla pesca, e lo spartiranno tra i rivenditori? Crivellerai tu di dardi la sua pelle e con la fiocina la sua testa? Prova a mettere su di lui la tua mano: al solo ricordo della lotta, non ci riproverai! [...] Il suo starnuto irradia luce, i suoi occhi sono come le palpebre dell’aurora. [...] Quando si alza si spaventano gli dèi e per il terrore restano smarriti. La spada che lo affronta non penetra, né lancia né freccia né dardo. Il ferro per lui è come paglia, il bronzo come legno tarlato. Non lo mette in fuga la freccia, per lui le pietre della fionda sono come stoppia. Come stoppia è la mazza per lui e si fa beffe del sibilo del giavellotto. La sua pancia è fatta di cocci aguzzi e striscia sul fango come trebbia. Fa ribollire come pentola il fondo marino, fa gorgogliare il mare come un vaso caldo di unguenti» (Gb 40; 41).
    L’autore per sempre anonimo sa benissimo che ha scritto un capolavoro. Lo ammette in una frase nostalgica gettata come di sfuggita: «Oh, se le mie parole si scrivessero, se si fissassero in un libro» (Gb 19,23)



    Fonte
    Citazione da Jacques Attali, Dizionario innamorato dell’’ebraismo; Fazi Editore, Collana Le terre.
    Codice isbn: 9788864111704. Codice isbn Epub: 9788876255489
     
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    Quanto materiale..., grazie ashe, ho aperto il post sia da una citaz d Maurizio1 ma anche perché nella maggioranza dei thread, a seguito delle domande, ci si concentra spesso solo su satan, piuttosto che su bene elohim quando ce molto altro.
    Mi riprometto di rileggere bene giobbe in ebraico per vedere se riesco a cogliere delle rime, delle raffinatezze.
    Comunque ci vorrebbe un forum solo per giobbe.

    Inviato tramite ForumFree Mobile

     
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  4. Vikhyngk podéyah
     
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    Trovo straordinario il resoconto di Attali e questo Dio che appare a Giobbe che sembra non essere altro che un'immagine di Giobbe stesso, tanto più detestabile delle disgrazie è il pensiero degli uomini che attorniano il disgraziato, ed è favoloso questo Dio che li condanna a sborsare ricchissime offerte per essersi permessi di pretendere di interpretare il Suo pensiero e poi rende a Giobbe la sua ricchezza, (ovvero trasferisce a Giobbe tali offerte).
     
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    A proposito..
    Ma quanti erano gli amici di Giobbe?
    Sembrerebbe 4.
    Pero uno sembra comparire dal nulla.
    Inoltre Dio ne rimprovera solo 3.
    Perche?

    Inoltre vorrei provare a spezzare una lancia in favore degli amici di Giobbe.
    E' una cosa che mi sono sempre chiesto:
    Gli amici vengono rimproverati per non avere detto le "cose rette" che ha detto Giobbe.
    Giobbe 42,7 "Dopo che il Signore ebbe rivolto queste parole a Giobbe, disse a Elifaz di Teman: «La mia ira si è accesa contro di te e contro i tuoi due amici perché non avete detto di me cose rette come il mio servo Giobbe

    Ma quali sono queste cose rette che ha detto Giobbe?"

    Edited by Maurizio 1 - 28/1/2020, 16:18
     
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4 replies since 1/4/2017, 00:17   616 views
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